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Una bocca al titanio

Una bocca al titanio

La soluzione degli impianti per chi ha perso la radice di uno o più denti trova i dentisti sempre più interessati e attenti al nuovo. A fronte infatti di un lavoro sicuramente lungo e complesso si ottengono ottimi risultati estetici e funzionali.

Tutti sanno che in una bocca sana e ideale ci sono 32 denti (due canini, quattro premolari e sei molarti per ogni arcata). Ogni dente è costituito da due parti: una corona che è ben visibile nella bocca e una radice che è alloggiata nell’osso. Paragonando il dente a un palazzo, la radice ne rappresenta le fondamenta. Mentre la corona del dente, quando è malata, può essere sempre curata e ricostruita in vario modo, per la radice il discorso è più complesso e l’estrazione può costituire l’unica “terapia” (l’intervento di apicectomia in caso di granuloma apicale, salva molte situazioni altri menti irrecuperabili).

Dando per scontato che la radice non c’è più e che si voglia mantenere la salute della bocca, che cosa si può fare?

Se dente mancante è tra due utilizzabili, si può fare un ponte tra questi ultimi saldando a essi l’elemento mancante, che così solo apparentemente appoggerà sulla gengiva. Per far ciò i denti pilastro devono essere rimpiccioliti e coperti da capsule: qui sorge il problema, perché quando i denti pilastro sono sani, è proprio un peccato ridurli a piccoli monconi. E allora che cosa fare? La soluzione può essere offerta dall’utilizzo di un impianto che è una radice artificiale infissa nell’osso, che regge la corona del futuro dente. Così facendo, i denti limitrofi non vengono danneggiati in alcun modo e anzi trarranno indiretto vantaggio dalla presenza di questo “nuovo nato”. A maggior ragione, quando mancano più denti e il futuro ponte risulterebbe troppo esteso, oppure quando manca la possibilità di usufruire di un pilastro perché proprio non c’è, ricorrere a un impianto è l’unica possibilità di evitare una riabilitazione della bocca con apparecchi mobili.

Quella degli impianti è una soluzione che ha trovato i dentisti attenti al nuovo, sempre più interessati perché, a fronte di un lavoro sicuramente complesso, si ottengono risultati estetici e funzionali veramente ottimali. Ormai sono stati codificati dei parametri di operatività, rispettando i quali, ci si può attendere una percentuale di successo molto alta. Vediamo perché: gli impianti sono realizzati in titanio, metallo particolare che visto al microscopio ha una superficie molto porosa che facilita l’aderenza con l’osso ospite al punto da far chiamare il rapporto osso-impianto “osteointegrazione”. In effetti, quando questo processo di integrazione si compie, l’impianto può essere sottoposto a notevoli carichi masticatori senza rompersi, contribuendo altresì alla vita dello stesso osso e comportandosi, in ultima analisi, come una comune radice dentale. Tra le tante “virtù” del titanio bisogna ricordare che questo materiale non viene “colonizzato” dai germi che normalmente sono ospiti del cavo orale: questi ultimi, infatti, non trovandolo “interessante”, ne stanno alla larga e la patina stessa che si deposita anche sul denti può essere rimossa facilmente dallo stesso paziente con le comuni tecniche di pulizia dentale.

Immaginiamo che una persona si rivolga al proprio dentista perché, avendo perso un dente, vuole ripristinare la corretta funzione della propria bocca. Il dentista, espediti gli esami clinici, ematologici è radiologici di routine, in base alla situazione ossea (spessore disponibile, qualità dell’osso, vicinanza di strutture anatomiche condizionanti quali il seno mascellare o il canale mandibolare) sceglie il tipo, la forma e la dimensione dell’impianto da utilizzare.

La tecnica chirurgica consiste nell’anestetizzare la parte, incidere la gengiva, preparare Il “sito” ricevente nell’osso, inserire l’impianto e richiudere la gengiva. Il tutto deve avvenire rispettando le norme di asepsi che sono proprie di qualunque intervento chirurgico; il paziente viene, quindi, congedato dallo studio con una terapia antibiotica e analgesica da seguire nei giorni avvenire. Dopo un periodo di tempo variante dai quattro agli otto mesi, l’impianto potrà essere utilizzato: previa una piccola anestesia locale, si riaprirà la gengiva per consentire l’avvitamento del moncone; seguirà la normale presa delle impronte e quindi la cementazione della capsula che, nel frattempo, il laboratorio avrà approntato.

La corretta sequenza dei modi e tempi elencati consente successi molto vicini al 100 per cento nel primo decennio, anche se una corretta statistica non è facile da determinare perché la manualità dei singoli operatori è una determinante di non poco conto. Un’ultima notazione è per coloro che per vari motivi hanno per so tutti o quasi tutti i denti e si sono ridotti a dover portare una protesi totale: anche per loro l’implantologo può fare molto. È sempre possibile, infatti, “fissare” una protesi mobile a un certo numero di nuove radici preventivamente “saldate” all’osso e munite di attacchi. È giusto guardare, quindi, con sereno ottimismo all’implantologia per le concrete possibilità che ci offre di risolvere anche in casi molto difficili.

Articolo a cura del Dott. Tito Messina

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